sabato 24 settembre 2011

Dalla Corea (16) - Seoul



Sono tornato da quasi una settimana, svanito quasi del tutto l’effetto del jet-lag - direi che l’ho smaltito prestissimo, eccetto martedì mi sono svegliato sempre ad orari normali senza crollare particolarmente la sera, penso che quando si torna a casa ci si rimette sempre più velocemente, perché si riprendono le abitudini, invece quando si va arrivando in un posto nuovo si entra in fase più lentamente - posso concludere queste cronache con alcune considerazioni specifiche e, come mi è stato chiesto, con un riassunto. Intanto inizio con Seoul, che merita un post a parte (e sicuramente meriterebbe di più, una città di dieci milioni di abitanti, cui si aggiunge una periferia altrettanto popolata non si può esaurire in un breve post, come non si può visitare e comprendere nei due/tre giorni in cui ci sono passato).

A Seoul ci sono arrivato dall’alto, da cui non si vede molto, e via terra, sia dall’aeroporto, attraverso un grande ponte che attraversa la baia, sottoposta ad effetti di marea vistosi, sia dall’entroterra, in bus per le feste del Chuseok, arrivando a Seoul est, e quando sono tornato lambendo soprattutto la parte occidentale, facendo a ritroso il tragitto fatto in macchina appena sbarcato sulla Land Rover di Ki (quando guidava il famoso “chauffeur”). Da qualunque parti ci si arrivi però la prima cosa che risalta agli occhi sono gli enormi edifici, grattacieli in acciaio e cristallo delle grandi compagnie coreane e multinazionali, i palazzi degli affari, in parecchie zone del centro come nel nuovo quartiere Icheon in costruzione, dove c’è il nuovissimo più alto grattacielo di Corea insieme a larghi viali di rappresentanza e anche un “Central Park” di newyorkiana memoria. E questi sono nulla, a parte sembrare di passare da una downtown all’altra di una città americana, più densi e più nuovi in media, e senza i grandi spazi liberi e bassi che spesso affiancano i grattacieli delle città del mid-west. Perché alti e larghi svettano soprattutto lunghe teorie di abitazioni dei coreani, grandi palazzoni in cemento armato formati da venti-venticinque piani e lunghi centinaia di metri, che affiancandosi, a volte con un po’ di scarto, spesso paralleli, talvolta un po’ più sghembi, formano dei muri, delle protezioni, rinchiudono e delimitano la città o zone di città. E questo non solo nelle periferie, nelle “bad town” che circondano la Seoul propriamente detta, ma anche a pochi passi dal centro, davanti al nuovo museo nazionale, che sorge in una zona da poco dismessa della base americana della città, affianco allo stadio olimpico. Resta pochissimo spazio per case a misura d’uomo, che sono poi, paradossalmente, bassissime, uno o due piani, le case dei quartieri ricchi, dei dirigenti delle grandi compagnie o dei funzionari di ambasciata, in cemento con mattoncini rossi, anni settanta (e infatti risalgono non poche a quest’epoca), altre in chiaro stile british. Ma resta qualcosa di asiatico, la disposizione, casuale, ingarbugliata, come i bastoncini dello Shangai lanciati da un immaginario urbanista sperimentale. Insomma il piano regolatore esiste solo per le zone pubbliche e monumentali, per i nuovi grandi viali che conducono al rifatto palazzo reale o alle nuove zone degli affari, il resto sono spirali di strade incomprensibili.

A Seoul, non considerando il passaggio autostradale all’arrivo, sono arrivato il sabato mattina del fine settimana in cui si festeggiava la festa del Chuseok, la principale festività coreana, ben due giorni di vacanze! Siamo arrivai in bus nella parte orientale della città e fortunatamente Ki aveva le carte oltre a conoscere il coreano (essendo coreano, ovvio), perché senza sarebbe stato un po’ difficile capire come poter comprare i biglietti della metro, oltre a capire quale linea prendere, infatti le comode mappe tascabili che si possono liberamente prendere alla stazione hanno un solo difetto: sono in caratteri coreani. Fortunatamente poi dentro i nomi delle stazioni sono anche in caratteri latini. Una simpatica musichetta annuncia l’arrivo di ogni vagone, insieme ad un monitor che con dei disegnini comunica in tempo reale la posizione del treno sulla linea. Dentro i vagoni sono molto larghi e spaziosi, non solo più di quelli dell’angusta metropolitana di Londra o della non larga metropolitana di Parigi, ma anche di quella di Roma mi pare. E’ sabato e quindi non corro il rischio di sperimentare grandi affollamenti, temo che nei giorni lavorativi anche qui hanno del personale per “agevolare” la discesa e la salita (ovvero ti premono dentro il vagone, sono famosi a Tokyo per farlo ma io li ho visti anche a Parigi). Devono però essere stati molto scioccati dall’attentato alla metropolitana di Tokyo, perché i monitor nel vagone trasmettono in continuazione le istruzioni per un’emergenza dovuta a gas nocivi nella metropolitana, e nelle banchine sono ben visibili degli armadi con maschere antigas e altre protezioni in plastica. Infine, nei due/tre viaggi fatti in metropolitana, ho potuto notare come non passino musicisti nei vagoni o altri a chiedere elemosina, ma dei signori a vendere una specie di calzino elasticizzato (promuovevano il prodotto ma in coreano con scritte anch’esse in coreano, quindi non ho potuto cogliere tutte le qualità di questi oggetti).
Le strade di Seoul possono anche riempirsi di ristoranti, negozi, in un curioso mélange di occidente e oriente, quando ai negozi delle grandi case americane si affiancano le insegne luminose e colorate dell’oriente, con i segni dell’alfabeto coreano che sono composti come per formare un carattere (alla cinese) pur non essendo ideogrammi. La domenica mattina, pigramente verso le dieci, i negozi sono comunque aperti, alcuni avventori si aggirano lenti e radi, tra le vetrine e i coffe-shop all’americana, poi mano mano quando l’ora di pranzo si avvicina (che in Corea è a mezzogiorno) la folla aumenta, ma noi dopo pranzo andiamo a vedere la città dall’alto. Non lontano dal centro di Seoul, proseguendo la salita dal quartiere delle ambasciate, si apre un grande parco, in salita, su una collina più alta delle altre, che non arriva ad essere una montagna (come quella dietro il palazzo reale, per esempio) ma è abbastanza alta e ripida per essersi salvata dalle costruzioni compulsive del dopoguerra, e sulla sua sommità si trova una torre (simile per dire a quella di Sydney) da cui si può vedere tutta la sterminata città. Purtroppo è un giorno così nuvoloso che non saliamo perché la cima è già dentro le nuvole, ma anche dalla base possiamo ammirare da un lato e dall’altro, emergendo dalla bruma, la città, con i suoi grandi palazzi, le abitazioni che sembrano grandi caserme (ancor più inquietanti perché numerate, con numeri e segni a caratteri cubitali che si distinguono da lontano), i grattacieli, le intricate case basse e i parchi, che coincidono per lo più con il palazzo reale, quello del principe e le basi (o ex-basi) militari americane.
E’ anche una città in cui convivono diverse città. La città reale, ricostruita dopo la guerra, distrutta dai giapponesi che avevano costruito il loro governatorato proprio dove sorgeva (e risorge oggi) la porta di ingresso al palazzo del re. Palazzo che non è tale nell’accezione occidentale, non si tratta di un grande edificio tipo Buckingham Palace, né di una reggia seguita da un enorme parco come Versailles, ma è piuttosto una grande area dove si alternano cortili, edifici bassi di legno costituiti da un solo ambiente adibiti alle udienze reali, parchi, altri edifici che separano i vari cortili usati per le tante necessità della corte, senza distinzioni nette tra il palazzo e il parco, grazie al materiale (legno), ai colori degli esterni (sul verde, spesso) e alla forma caratteristica dei tetti, nonché chiaramente alle dimensioni ridotte (mai più di un piano). C’è poi la città degli affari, la modernità oltre la modernità, dove si gestiscono imperi come Samsung e LG i cui oggetti invadono le case di tutto il mondo. Poi la città degli americani, con il campo militare e il quartiere dove storicamente i soldati americani potevano trovare negozi e ristoranti occidentali, uno dei pochi posti dove si possono trovare insegne scritte in caratteri latini. E poi le città degli abitanti ricchi e degli abitanti normali di cui ho già parlato.
Per finire è anche una città che ha un confine, uno solo ben chiaro e invalicabile. Se a sud infatti gli edifici si susseguono all’orizzonte, intervallati da qualche collina troppo ripida e quindi ancora verde, fino quasi a perdersi, verso nord termina quasi bruscamente. Dietro il palazzo reale sorge una montagna anche più elevata delle altre, dietro la quale si possono intravedere solo poche case, ma quasi nulla più, perché non lontano c’è il confine, quello con la Corea del Nord, uno dei posti più militarizzati del mondo. E così il centro storico, se lo identifichiamo con il palazzo reale, diventa anche la periferia della megalopoli all’ombra inquietante della verde montagna che protegge dalle insidie del nord, quasi come in una contrada della terra di mezzo.

Nessun commento: