Arrivato a Seoul dopo circa undici ore di volo, con Korean Air non è male, i sedili sono abbastanza larghi, il cibo coreano leggero, il vino di discreta qualità. Pericolosi sono i monitor individuali con una quantità di giochi largamente superiore a quella di Air France, perché avere lì davanti un monitor con cui poter giocare, vedere film, o altro, è una tentazione e poi si rischia di non dormire. Invece partendo alle nove di sera e viaggiando verso est se uno riuscisse a dormire potrebbe passare il fuso orario con scioltezza. Mi sono moderato, ho giochicchiato prima di cena - c’è un gioco di calcio niente male - ho cenato con uno speciale sulla premier league dell’anno scorso e poi un filmetto dopo cena, incredibilmente in italiano. Una commediola leggera, ambientata a Roma, tra il centro storico e l’EUR, adatta per la situazione. Dopo ho un po’ sonnecchiato finché non ci hanno acceso le luci per la colazione.
E poi è tutta Asia! I coreani sembrano tutti molto gentili, inchini a profusione, più simili ai giapponesi che ai cinesi in questo, anche se tra loro poi rispettano molto le gerarchie, per cui un superiore non saluta un inferiore, mentre questo si prostra, inchini, servizi. Ma cercherò di capire meglio tutto ciò nei prossimi giorni. A Seoul per fortuna tutto facile e veloce, immigrazione, bagaglio e dogana.
Il professore che mi ha invitato mi aspetta fuori all’uscita, ci siamo incontrati subito senza problemi. Insomma tutti i vari impicci tecnici che possono sempre succedere - bagaglio perso, non incontrarsi, documenti o qualsiasi cosa uno possa immaginare - non sono accaduti, quindi liscio liscio verso la KNUE! Ora non ho ben capito, ma il professore coreano ha una specie di chauffeur, un ingegnere del suono, che fa il ricercatore free lance ... valli a capire questi rapporti. Comunque ci attendono un paio d’ore buone di macchina, grazie ai quali posso vedere i grattacieli della nuova zona di Seoul, appena passato un grandissimo ponte - forse uno dei più lunghi d’Asia, mi dicono - sopra la baia, che risente tantissimo della marea e infatti nella parte iniziale più che acqua è fango quello che attraversiamo, riusciamo anche a vedere una barca lì ferma con intorno quelli che sono probabilmente cacciatori di granchi. Poi Seoul, dove andrò il prossimo fine settimana, la intravedo dall’autostrada. Oltre ai grattacieli della parte commerciale, per ora vedo solamente enormi palazzi, casermoni con i numeri ben stampati sopra a caratteri cubitali, 101, 413, 218 etc ... che si alternano a sprazzi di campagna o meglio a quella boscaglia collinosa che sembra il paesaggio ricorrente da queste parti.
Dopo un paio d’ore arriviamo al Campus. Alloggio proprio nel campus, in un edificio adibito ai visitatori, ma pare sia il solo. Una stanza essenziale ma ben messa, parquet dove si va senza scarpe, bagno, un paio di armadi, la scrivania su cui sto scrivendo, un televisore (che però è in coreano, non di molta utilità perciò). Purtroppo, o per fortuna, non c’è rete. In ogni caso andiamo subito in Università, dove invece posso avere accesso alla rete e salutare tutti quanti in Europa stavano aspettando mie notizie.
Un caffè e poi a cena. Qui si cena verso le sei, perfetto per me che fondo il pranzo con la cena, viste le sette ore di fuso orario. Andiamo in un ristorante tipico coreano, dove ovviamente faccio fare tutto a loro. Una stanza poco affollata e non molto grande, con tre o quattro tavolini in fila per ogni lato, tondi con degli sgabelli bassi intorno. Siamo in tre inizialmente, io, il professore che mi ha invitato e questo famoso autista-ingegnere del suono. Ordiniamo, anzi ordinano, una specie di liquore di riso, che viene portato in quelle che sembrano teiere e bevuto in una specie di ciotoline di rame o stagno. Per fortuna non è un liquore, ma ha una gradazione più simile a quella della birra. Fa caldo, abbastanza afoso, e quindi è assai dissetante. Poi arrivano tre ciotoline per mangiucchiare nell’attesa, in una ci stanno delle cose verdi che sembrano fagiolini e invece sono germogli di patata dolce, in un altra una specie di misto di verdure un po’ piccante e in una terza delle cose misteriose marroncine che mi sembrano noci. Quando chiedo di cosa si tratta, i due coreani prima mi allontanano la ciotolina da sotto li naso, poi mi spiegano: sono gli insetti del baco da seta. A ecco, insetti! Sfido il muro culturale e ne assaggio uno. Per il primo giorno può bastare. Nel mentre aumentiamo di numero. Si aggiunge prima un ragazzo, undergraduate student, e poi un altro professore, di filosofia, addirittura ha studiato in Germania. E’ interessante notare come tutti i professori abbiano studiato all’estero - il direttore del dipartimento che avevo incontrato poco prima aveva studiato a Reims e abbiamo addirittura parlato in francese! - e parlano un inglese fluente, mentre gli altri stentano molto e si comprendono difficilmente, anche se lo studente animato di molta buona volontà cercava, riuscendoci quasi sempre, di spiegarmi cosa succedeva. Ancora noto che la gerarchia viene rispettata con quel garbo orientale che si vede nei film o che ti raccontano. Io sono l’ospite straniero, quindi sono il primo - anche se preferisco cedere il primato per capire come si deve fare per molte cose - poi ci sono i professori, che tutti chiamano con il loro titolo, poi l’autista e infine lo studente. Quest’ultimo ha quindi il compito di servire questa specie di liquore di riso a tutti, andare al banco per chiederne ancora quando è finito, rassettare i piattini. Si mangia tutti pescando da uno stesso grande piatto di portata con bacchette e cucchiaio (entrambi di metallo), anche se a me, povero stupido europeo, dopo un po’ portano un piattino e una forchetta. Non perché non sappia usare le bacchette, ma francamente il piattino era utile! E anche una forchetta per tagliare, che con le bacchette questo non è facilissimo. E poi il primo piatto è una specie di frittata, con cipolle, verdure e pezzetti di seppia, una specie di Okonomyaky (ma non l’ho detto ai coreani, perché so che non scorre buon sangue tra loro e i giapponesi ...) che si sfalda facilmente e prenderlo con le bacchette, intingerlo nella salsa di soia e portarlo arditamente alla bocca sorvolando la ciotola con il liquore di riso non è proprio una cosa facilissima. Ridete? Vorrei vedere voi.
Dopo portano un altro piatto - perché siccome si mangia tutti dallo stesso li portano in sequenza, altrimenti non si saprebbe dove metterli - molto piccante, mi prevengono i coreani. Una specie di spaghetti - i noodles coreani - con verdure e ancora seppiolina. Sì certo sono parecchio piccanti e non essendoci né pane né riso è dura, ma non mi pare di aver sfigurato, anzi, li avreste dovuti vedere come sudavano alcuni di loro.
Per finire un piatto di Tofu, che ha parecchio stemperato il piccante.
Prima di andare via è entrato nel ristorante un gruppo di studenti che appena ci hanno visto - o meglio hanno visto due professori dell’Università seduti al tavolo - si sono profusi in una lunga sequenza di inchini. Poi alla loro capofila abbiamo offerto un po’ di liquore di riso e un pezzo di Tofu. Pare stiano preparando uno spettacolo per la prossima settimana, e quindi giravano per i locali intorno al campus cercando sponsor tra i vari ristoranti o negozi.
Mi hanno poi riaccompagnato in stanza, dove sto scrivendo e dove - grazie all’assenza di internet - spero poter continuare nei prossimi giorni questa breve cronaca di quindici giorni coreani, che metterò online nei momenti di accesso alla rete.
Ora è venuto il momento di andare a dormire. La mia prima notte asiatica!
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