Arrivare in una nuova città, sconosciute le strade, sconosciute le facce, incomprensibile la lingua. Una lingua che anche quando si capisce, per studio o abitudine, resta sempre lontana negli usi delle frasi, delle espressioni, delle cadenze, degli sguardi e dei gesti associati.
I giorni bui, le persone chiuse nelle case e nei propri lavori. Arroccati nella produzione quotidiana del proprio benessere. La pioggia che cade incessante nei lunghi inverni, quando il pensiero facilmente corre al sole, al chiasso, all’accidia magica del passato.
Arrivare in paesi “civili” dove il lavoro fa rima con assenza, dove l’efficienza esterna deriva da una efficienza interna che ha distrutto ogni generosità, ogni apertura all’eccezione e all’imprevisto. Dove tutto deve correre nei grigi, umidi, tristi, inesorabili binari della programmazione. E il modo di vivere sembra aver corrotto gli spiriti, la vitalità dimenticata, i giorni scorrere inutili. Un distacco incolmabile. L’imposizione della lingua, sempre, comunque. Una violenza quotidiana al proprio cervello. Il lavoro obbliga a questa violenza semplice, impercettibile, costante. E i momenti di pausa, quando non si puo’ tornare nelle proprie terre del sole, non resta che chiudersi in sé o nelle proprie comunità. Integrarsi? Ovvero un continuo sforzo a capire il non-detto degli altri e spiegare spiegare spiegare i propri non detti.
No. Questo avviene nei giorni forzati del lavoro. Questo è ancor più faticoso del lavoro, è l’aspetto più faticoso del quotidiano.
Integrazione? No grazie.
Da stranieri in italia e da italiani nel mondo.
1 commento:
good start
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