La scienza nell’ultimo secolo si è sempre più distaccata, nella sua visione del mondo, dalla società “normale”. Fino alla fine del XIX era possibile un dialogo tra società e sviluppi scientifici: la cosmologia copernicana aveva una dialettica immediata con la quotidianeità, così come la visione meccanicista di Laplace era in sintonia con il positivismo ottocentesco. Gli scienziati non si occupavano di creazione e metafisica, per questo lasciavano il campo ai filosofi, ai teologi, ai sociologi e ai politici, che potevano facilmente comprendere le nuove scoperte scientifiche. La dinamica newtoniana riuscì ad essere assorbita facilmente e la società ne poteva parlare in modo semplice così che il dibattito poteva essere quanto più largo possibile. Anche i non addetti ai lavori potevano parteciparvi, accrescere le proprie conoscenze, avere una visione del mondo più “corretta” e apportare il proprio contributo.
Quando poi arrivarono la meccanica quantistica e le teorie speciali e generali della relatività (per non parlare delle successive teorie che cercano modelli unici della fisica e quindi della struttura materiale del mondo) la frattura fu chiara. Non si può discutere di meccanica quantistica o di relatività generale senza conoscenze approfondite di matematica, e questo, forse, per la natura intrinseca delle teorie. Se infatti anche la meccanica classica si basa su equazioni differenziali (ha anzi fatto nascere il calcolo differenziale e integrale), i suoi concetti sono “intuitivi” e i “tecnicismi” (ovvero quegli aspetti che richiedono una specializzazione non banale) sono limitati principalmente agli aspetti “quantitativi”, lasciando però accessibili quelli qualitativi. Invece i nuovi sviluppi del XX secolo si basarono proprio su concetti matematici “non banali”. Ovvero questi sono proprio la sorgente, e non solo uno strumento descrittivo, della nuova visione del mondo. Certo la quantizzazione dell’energia è intuibile guardando gli spettri atomici, che però sono già meno quotidiani e intuitivi delle orbite planetarie che erano al centro della meccanica classica. Così le deviazioni delle orbite di Mercurio, spiegabili solo con la relatività generale, sono sì percepibili, ma sempre come eccezioni ad una visione “semplice”, ovvero quella newtoniana.
E’ quindi difficile assorbire nuove teorie, basate su equazioni fondative non semplici come quella di Newton, da parte della società. E’ difficile renderle popolari, nel senso di una divulgazione che vada al di là della spiegazione di specialisti nei confronti di non-specialisti. E’ difficile renderle oggetto di dibattito pubblico senza limitarsi ai pochi specialisti o senza incorrere in banalità o errori veri e propri da parte di non addetti ai lavori. Se questo non è importante per l’avanzamento della scienza in sé, che non avviene in modo democratico e popolare, ha creato una frattura con la società. Frattura importante, per esempio, quando altre autorità intervengono nel dibattito sulla “finalità” e sulla “nascita” del mondo senza tener conto degli sviluppi della scienza. Sembrano infatti avere ancora la visione ottocentesca della scienza, ignorano il senso profondo dello sviluppo della scienza e della sua visione della materia e del mondo fatti in un secolo. Ma sono incolpevoli di questa “ignoranza”, perché la specializzazione necessaria per comprendere a fondo, e quindi parlarne pubblicamente, ovvero “democraticamente”, va al di là di quella che gli si richiede per la loro funzione pubblica, spesso di letterati, filosofi, teologi.
Per la scienza questo problema è limitato agli aspetti culturali-filosofici soprattutto: privarsi, da parte degli scienziati, del supporto dei filosofi che sarebbero gli specialisti di quelle questioni che riguardano una visione del mondo che non sia naïf rispetto alle moderne (che oramai hanno quasi un secolo) teorie scientifiche è sicuramente una grande penalizzazione per lo sviluppo della Cultura. A volte la politica interviene con la sua ignoranza, per fortuna non tanto nelle scienze fondamentali, forse perché gli scienziati riescono a spoliticizzare le proprie ricerche e anzi riescono ad esaltare i possibili legami con gli sviluppi tecnologici (cosa che ai politici, che ovviamente ancor meno ne capiscono, piace molto). Purtroppo a volte l’ignoranza e la semplificazione della politica interviene nella medicina e biologia, quando queste entrano in campi più vicini alla quotidianeità. E’ indubbiamente più concreto un embrione che un bosone.
A parte questo, pero’, la scienza può permettersi di non essere democratica, può permettersi di procedere e vivere autonomamente dai dibattiti pubblici, o quanto meno può ridurne il numero e cercare di gestirli secondo una dialettica esperti-ignoranti. Quando la scienza (anche se si tratta piuttosto di tecnica e studio dei fenomeni) sembra incontrare l’economia, come nel dibattito sulle fonti di energie e sul riscaldamento globale, già questo distacco deve necessariamente ridursi.
Con l’economia e la finanza in questi ultimi anni si sta assistendo ad un processo simile a quello della scienza a cavallo dei secoli XIX e XX. In questi anni di “crisi economica” abbiamo sentito parlare prima di “prodotti finanziari”, misteriosi generatori del tutto, e poi di come questi lontani oggetti, direttamente o indirettamente, abbiano costretto i governi a misure economiche che passano sopra la pelle di tanti. Che fanno diventare reali e concreti dei nomi lontani ed esotici. Anche in questo caso tanti esperti ci dicono quanto sia importante quella tale misura, come sia fondamentale quell’altra, perché “i mercati vanno rassicurati” e perché tante altre cose, giustificando in modo tecnico tante misure economiche e sociali giudicate “inevitabili”. In questo caso però non è possibile creare un circolo di super-specializzati totalmente avulsi dalla società, non è possibile chiedere sacrifici che si sentono concretamente nella propria vita quotidiana in nome di oggetti che restano lontani e irreali. Non è possibile che chi non conosce e non frequenta i meccanismi della finanza sia il primo a dover pagare il prezzo chiesto dai meccanismi generati da questi strumenti. Non gli si può chiedere farlo a scatola chiusa, con l’arroganza della conoscenza.
Nessuno chiede di rinunciare ad una parte di salario o di lavorare di più o riposarsi di meno o di avere meno diritti per una soluzione di un’equazione differenziale alle derivate parziali. Quanto meno la società chiederebbe di aprire un dibattito che vedesse anche altre teorie contrapporsi. Così quando l’economia e la finanza della visione dominante chiedono di pagare il prezzo per la propria esistenza è inevitabile che venga rimessa in discussione quella visione del mondo che le hanno generate e le sostengono; è inevitabile, e giusto, che chi per questo sistema deve pagare di più i suoi effetti cerchi altre visioni del mondo, che magari penalizzino di più altre classi sociali. Per questo chi si rifugia nella roccaforte della “competenza” e si rende avulso alla società nello stesso momento in cui a quella stessa società domanda sacrifici giustificati dalle proprie competenze fa un errore sia di giustizia che di intelligenza.
La pedagogia è un’arte difficile, ma necessaria quando si chiede qualcosa in cambio dei prodotti del proprio “distante” sapere. E soprattutto è un’occasione per rimettere in discussione alcune presunte “verità” per magari riuscire ad arrivare ad una migliore visione del mondo per una società più giusta. E’ forse più facile far lavorare insieme fisici e filosofi sull’origine e la natura del mondo, ma è sicuramente indispensabile provare a discutere pubblicamente su una visione della società senza dare nulla per scontato, anche alcuni assunti economico-finanziari che dominano il presente. Se questi sono poi così “scientificamente” ineluttabili saranno ineluttabilmente accettati.
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