giovedì 10 marzo 2011

Dall'ACS per iMille

E' uscito oggi sul sito de iMille un mio contributo che riprende un dibattito che c'è stato alcuni mesi fa su C&EN, il settimanale dell'American Chemical Society. Lo riporto anche qui.

Valutazione della ricerca universitaria : il dibattito oltre oceano

In questi mesi con la riforma Gelmini si è (e si sta) molto parlando delle commissioni di valutazione delle attività di ricercatori e professori universitari. Il sistema delle tenure, che elimina la figura del giovane ricercatore a tempo indeterminato si è chiaramente ispirata al sistema americano. E’ allora interessante notare come, proprio durante le discussioni, le contestazioni a volte troppo “a priori” e le difese anche queste troppo senza cognizione e riflessione, si sia svolto su Chemical & Engineereng News, (C&EN, il settimanale della American Chemical Society) un dibattito sulla valutazione e quindi sul senso della ricerca fondamentale ai giorni nostri. Tutto è iniziato da un editoriale dell’11 ottobre 2010 di Allen J. Bard, professore in chimica alla University of Texas a Austin. L’editoriale dal titolo provocatorio It’s not the money, stupid! ha provocato, come ci si aspettava, molte reazioni e il dibattito che ne è seguito è stato riportato nell’edizione di C&EN del 13 dicembre 2010 [1], proprio mentre da noi si attendeva la caduta del governo e si era alla fine dell’iter di approvazione della riforma Gelmini.

Cosa ha detto Bard nel suo editoriale di ottobre? La sua tesi centrale è che la cultura della ricerca accademica si è spostata negli ultimo 50 anni dalla valutazione basata sull’insegnamento, la creatività e la produttività a quella basata semplicemente sulla quantità di denaro che si riesce ad ottenere. Per questo, continua, i membri delle facoltà sono ora giudicati dalle stesse commissioni dei dipartimenti (quindi costituite di accademici) più sulla base dei fondi di ricerca ottenuti che sulla qualità del lavoro poi effettivamente svolto. Il fatto di essere valutati sui fondi ottenuti è chiaramente un segnale , un riconoscimento, del lavoro svolto precedentemente, però essere valutati solo (o principalmente) su questi non può essere una valutazione scientifica perché spesso chi prende la decisione finale per l’assegnazione dei fondi, come dice Bard, sono dei responsabili di progetto delle agenzie governative che sono lontani dalla ricerca più avanzata. Un altro problema, forse uno dei più gravi, che causa questo sistema che spinge ad una ricerca sempre maggiore di fondi, è che i giovani scienziati spendono il 70% del loro tempo scrivendo progetti, e questo in quello che è il periodo più prolifico di uno scienziato. Tempo che viene sempre più tolto alla supervisione degli studenti, e quindi alla formazione dei nuovi scienziati. A supporto della tesi di Bard si potrebbero citare i sempre più ricorrenti casi di frode scientifica, tra cui uno dei più famosi è quello di uno studente della Columbia il cui supervisore ha dovuto ritirare due articoli in cui studente (B.Sezen) e professore (D.Sames) risultavano autori, perché in seguito nel gruppo si erano accorti che i dati erano irriproducibili. Dati che si è scoperto essere totalmente inventati. Lo studente aveva proprio falsificato degli spettri NMR! Un caso sul quale il federal Office of Research Integrity ha trovato ben 21 effrazioni, come spiegato in dettaglio nello stesso sito dell’American Chemical Society [2] e che è considerato uno dei peggiori incidenti di frode scientifica della comunità chimica.
Per tornare all’editoriale di Bard, uno dei potenziali pericoli segnalati che stanno nascendo generati dal sistema è il sempre maggiore interesse delle Università non solo negli overheads ottenuti dai fondi (quando un gruppo in una università ottiene un finanziamento da una agenzia, una parte di questo va al dipartimento che lo ospita) ma direttamente nella generazione di proprietà intellettuale per aumentare il vantaggio direttamente economico ottenuto dall’istituzione. Questo non è chiaramente visto come un male in sé (come alcuni detrattori di Bard cercano di dire) ma se preso come criterio unico provoca delle distorsioni pericolose, come sempre quando si assume un unico criterio di valutazione.

Ma forse uno dei maggiori pericoli è quello che Bard espone nelle sue conclusioni. Se lavorare fianco a fianco con gli studenti e condurre ricerca scientifica fondamentale a lungo termine non è più l’attività quotidiana dello scienziato, ma il denaro è la cosa più importante, allora si entra in competizione con professioni molto più lucrative di quella accademica. Perché dunque un giovane e brillante studente dovrebbe fare scienza avendo come modello finale poi lo stesso lavoro quotidiano di altre professioni del mondo della finanza sicuramente pagate di più?

L’editoriale di Bard ha sollevato un vivace dibattito in cui si sono criticati alcune sue affermazioni ma anche segnalata la fondatezza di alcuni pericoli da lui sollevati. In particolare Prestwich e Wight (University of Utah) contrappongono al modello tradizionale (cui è chiaramente legato Bard, PhD ad Harvard nel 1957, un non giovanissimo che ha però più di 850 pubblicazioni su riviste internazionali di cui quattro già nel 2011, quindi non un anziano barone sfaccendato) in cui l’accademico ottiene il rispetto dei suoi pari grazie alle pubblicazioni nelle riviste di maggior prestigio, ottenendo fondi di ricerca e vincendo premi, un nuovo modello in cui il rispetto è rispetto sociale che si ottiene quindi quando le proprie attività hanno un impatto positivo sul resto della popolazione. Un nuovo modello per scienziati dell’era della conoscenza diffusa e dell’educazione permanente, dove si ha tutti da guadagnare se si rende chiara la connessione tra le tasse pagate e la ricerca da queste sovvenzionate. Una nuova generazione di accademici “imprenditori”, continuano Prestwich e Wight, abituati ad identificare e risolvere problemi del mondo reale, a trasferire la ricerca di base in tecnologia applicata e ottenere al tempo stesso prodotti per tutti e pubblicazioni scientifiche. Al servizio dell’Università di massa quindi, perché saranno insegnanti non solo per quel 5% di studenti che diventerà professore o scienziato ma per quel 95% che andrà nel mondo reale e che diventerà politico, uomo d’affari, scrittore, direttore d’azienda.

Partendo quindi dai criteri di valutazione delle tenure il dibattito si è spostato sulla definizione oggi della frontiera (se questa esiste) tra ricerca fondamentale e applicata, confine che soprattutto in chimica è tante volte poco ben definito.

Ed è tanto più interessante ed istruttivo vedere come i criteri di valutazione universitaria e quindi la definizione del ruolo dell’Università nella società siano qualcosa in continua evoluzione e nessun sistema ha delle certezze granitiche sui cui basarsi sempre e comunque. Questo non vuol dire assolutamente che la valutazione è un male in sé, anzi Bard chiede valutazione ma non a senso unico, non chiede finanziamenti a pioggia, vuole sganciare il legame a volte perverso tra valutazione e finanziamenti, senza eliminare nessuno dei due. Quando quindi in Italia, e in molti altri stati d’Europa, si iniziano ad utilizzare, giustamente, sempre più sistemi di valutazione basati su commissioni, agenzie, progetti nazionali e sovranazionali, è bene vedere i problemi che esistono dove questo tipo di sistema è in vigore da molto tempo e, dialogando al nostro interno e con chi lo conosce meglio di noi, cercare di considerare tutti i differenti aspetti.
Perché un approccio fideistico, da una parte e dall’altra, non porta mai nulla di positivo ma sempre distorsioni. E perché i contorni definiti del modello che si adotta sono legati al rapporto che immaginiamo nella società del futuro tra innovazione, ricerca scientifica, insegnamento universitario e formazione permanente, sviluppo sociale, economico e culturale.

Note

1) Si può accedere da qui all’articolo completo.
2) Una nota dell’ACS la si trova qui.

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