sabato 1 ottobre 2011

Dalla Corea (18) - Sullo sviluppo: tra energia e cultura



La Corea del Sud non è un paese sottosviluppato, al contrario, anche se da lontano, nello spazio, ma soprattutto nel tempo (ci ricordiamo ancora quando negli anni ottanta i prodotti “made in Corea” avevano un po’ lo stesso status degli attuali “made in China”), si può pensare il contrario. D’altra parte nel 1953 la Corea è uscita da una guerra disastrosa che ha letteralmente raso al suolo tutto, e ancor prima la dominazione giapponese aveva depresso l’area, usando i suoi abitanti quasi come degli schiavi per l’impero (gli uomini arruolati a forza, le donne per “svagare” le truppe giapponesi, e soprattutto per questo i coreani provano ancora un astio grandissimo nei confronti dei giapponesi). Poi sono arrivate le macchine e i prodotti tecnologici, più economici di quelli giapponesi, ma non per questo peggiori alla fine. Noi però in Europa pensiamo sempre, da snob decandenti, che questi paesi sono ad un livello di sviluppo inferiore, semplicemente perché magari lo erano fino a pochi anni prima. E il fatto che gli indicatori mondiali diano la Corea non ancora nei primi otto del mondo, vuol dire poco. Se infatti si vanno a cercare statistiche, risulta come la quarta economia più grande dell’Asia e la quindicesima nel mondo. Ma soprattutto è riconosciuto, grazie al suo alto livello di tecnologica informatica principalmente, come il settimo paese al mondo secondo l’indice di educazione e sviluppo umano dell’ONU, oltre ad essere parte dei trenta paesi OCSE. Ma tralasciando i numeri, è semplicemente all’occhio che si vede come non siamo in un paese del passato, ma semmai del futuro. Samsung, Hyundai, Kia, ma anche LG (leader mondiale negli schermi piatti, non sapevo fosse una ditta coreana, e qui fa un po’ di tutto, anche condizionatori). Tutti i loro prodotti invadono le strade e le case dei coreani, in giro le poche macchine europee si chiamano Mercedes, BMW, Audi, Porsche, Ferrari (sì Ferrari), ovvero macchine di lusso, a testimonianza che si sono sviluppati da soli e i ricchi (in senso assoluto, visto che comprano prodotti che sono di lusso anche per la se-dicente ricca Europa) cercano i simboli mondiali riconosciuti della qualità, qualità che però si trova anche nei loro prodotti (per restare alle macchine la Samsung ha una serie super tecnologica di berline che ha un certo successo mi pare). Allora non capisco tutte quelle chiacchiere sull’occidente che dovrebbe esportare le proprie conquiste sociali in Asia. Ovvero capisco quanto siano fuori dal mondo le persone che dicono ciò, non so se in buona (ovvero per semplice ignoranza) o in cattiva fede (ovvero per mantenersi nei propri ruoli, nelle proprie macchiette politiche). Qui semplicemente lavorano, certo ancora i prezzi sono più bassi dei nostri, ma questo penso sia piuttosto per colpa del folle corto circuito europeo, della forza monetaria dell’Euro che distorce le differenze dei tenori di vita reali (basti pensare all’assurdo per cui anche in USA tutto costa relativamente poco per chi viene dall’Euro-zona). E poi prima di parlare di esportare le conquiste sociali del secondo dopoguerra europeo in oriente bisognerebbe fare due cose, legate una con l’altra: venire qui e vedere nelle facce delle persone l’energia e la fiducia nel futuro, comprendere la loro cultura che non è basata sulle divisioni.
Girando per le strade, sia nella moderna Seoul sia in una città di provincia, infatti è stata una buona idea fermarsi e guardare le facce (come mi ha suggerito Emanuela appena arrivato, chiedendomi: “come sono le espressioni delle persone per la strada?”) e senza troppe chiacchiere ed elucubrazioni comprendere quell’energia che li anima, che li fa sorridere, il buon umore che è dato dalla fiducia in un futuro migliore o semplicemente in un futuro che è nelle loro mani. Fiducia e ottimismo (non quello di Berlusconi, che è piuttosto totem della decadenza, ricorda le caricature che si facevano dei prefetti della Roma decadente, impegnati solo in orge e gozzoviglie, laidi e grassi, adagiati su un triclinio con un grappolo d’uva in mano) che sono più efficaci di mille manovre economiche, di mille parole sul rilancio della crescita, di mille piani quinquennali, keynesiani o neo-liberisti.
E questo non è slegato dalla cultura coreana e orientale. Sicuramente è un campo enorme quello della differenza tra cultura occidentale e orientale, qui voglio solo dare un esempio che ho potuto notare dalla mia esperienza diretta (perché qui sono cronache, non certo saggi sulla Corea, lungi da me!): in occidente, Italia, Francia o USA, ci si domanda spesso se si viva per lavorare o si lavori per vivere. Contrapposizioni, come sempre, opposti tra cui ci sentiamo obbligati di scegliere, consapevolmente o inconsapevolmente. “Lavorare per vivere” è il motto dello sfaticato, per estremizzare, di chi fa il minimo sindacale, che porta, generalizzato, ad un sistema pigro e statico; “vivere per lavorare” invece è il motto del business, del “workalchoolic”, che provoca stress ed “esplosioni”. E noi ci sentiamo stretti in questi due estremi, perché viviamo il lavoro come qualcosa separato dalla vita. L’impressione invece che danno i coreani è che non c’è una differenza tra vita e lavoro, è quasi un fluire continuo, senza barriere, così che si può fare una riunione in Università il sabato dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio, o fare lezione fino alle 10 di sera, ma allo stesso tempo un mercoledì andare dal mattino fino al pomeriggio nel vicino parco nazionale e fare una lunghissima passeggiata in montagna tra i boschi. Lavorano così continuativamente ma senza stressarsi, anche dieci ore al giorno, ma dolcemente. E questo sicuramente nella media porta ad una produttività maggiore e (probabilmente) uno stress minore.
Questo ovviamente è solo lo spaccato di società che ho potuto vedere in quindici giorni ma che ho potuto confrontare con spaccati analoghi e raccogliere infine queste poche impressioni.

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