Spesso è una frase che segna un’epoca storica, l’inizio di una fase che viene categorizzata solamente dopo alcuni anni. Si dice che una frase e un discorso “fanno” la Storia. Meglio potremmo dire che ci forniscono, a posteriori, un paletto per orientarci e razionalizzare il flusso continuo degli eventi. Così il discorso della Ceka del 3 gennaio 1925 segna di fatto l’avvento del fascismo, sebbene Mussolini sia già andato al governo da alcuni anni e le leggi “fascistissime” debbano ancora arrivare. Quanti all’epoca potevano sentire quello che sarebbe arrivato non molto dopo? Non certo l’opposizione divisa e isolata. Non certo il Vaticano che anzi era accondiscendente quando non complice. Ma soprattutto le voci che si levavano erano inascoltate, magari perché “bollate” come “partigiane”, come si direbbe ora, “bolsceviche” come si diceva allora. Piero Gobetti già nel 1922 scriveva delle righe lucidissime a proposito del fascismo, descrizione che potrebbe essere riportata senza modifiche al berluskonismo, che è in piena continuità in questo senso con il primo, appunto “autobiografia della nazione”:
“Una nazione che […] rinuncia per pigrizia alla lotta politica è una nazione che vale poco”. Una nazione dove le regole sono viste come un attentato alle proprie libertà, ovvero dove il privilegio personale che prevarica tutto e tutti è sentito come un diritto, come una conquista che tutti vorrebbero ottenere. E’ la stessa nazione, 1922 e 2009. Ci si aggiunga poi una società sconquassata da una tanto grande quanto incomprensibile crisi economica, con conseguenti quotidiani attacchi alla dignità del lavoro, sia morali sia fisiche – sono di ieri gli scontri tra la polizia e gli operai FIAT di Pomigliano d’Arco – e un’opposizione liquidata dall’interno e dall’esterno. E i soldati presidiano già le strade e i punti nevralgici delle nostre città.
Così la frase di oggi di Berluskoni assume un valore sinistro: "Se non ci fosse la possibilità di ricorrere ai decreti tornerei dal popolo a chiedere il cambiamento della Costituzione e del governo". Sono parole indiscutibilmente dal carattere golpista, da presidente sudamericano.
E cosa ci vuole dire? Ci svela il suo pensiero profondo? Il suo desiderio segreto? Getta la maschera e mette in pratica a tutto campo, senza freni, senza remore quella sua concezione del governo come “dittatura della maggioranza”, dove si interviene per imporre le proprie volontà a tutti quei cittadini che non vogliono? A partire dal Presidente della Repubblica. Si vogliono gettare a terra le lastre granitiche della Costituzione Repubblicana, Antifascista non solo di nome ma nello spirito, nell’equilibrio dei poteri, nel tentativo di costruire uno Stato dove nessuno potesse predominare, dove il vincere le elezioni non corrisponde a “sbancare”, ad accaparrarsi tutto. Dove la “cosa pubblica” non è paragonata ad un gioco e il popolo ad una tifoseria. Dove esiste il rispetto dei limiti propri. Dove le regole sono condivise. E’ il governo di chi non accetta di non poter parlare al telefonino a voce alta sui treni, di chi non accetta che esista una Giustizia valida per tutti, dai ricchi ed i potenti fino ai migranti che cercano una speranza arrivando sulle coste italiane. Sembra scontato, banale, un po’ retorico, e forse gridare “al lupo” serve a poco, ma cosa si può fare quando si ha il sentimento che una pagina nefasta della storia si sta scrivendo? Si spera di sbagliarsi, certo, e intanto si prova iniziando scendendo in piazza per difendere la giustizia, i diritti, la separazione dei poteri che pochi ancora forse ricordano essere alla base di uno stato democratico moderno.
Intanto noi a Parigi forse è meglio che iniziamo a pensare come ospitare il prossimo flusso di esuli.
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