martedì 14 ottobre 2008

14 Ottobre

Un anno fa si celebravano le primarie del Partito Democratico, un momento di speranza per molti, sembrava finalmente concretizzarsi quel sogno nato molti anni prima sotto le insegne dell’Ulivo, si poteva iniziare a mettere da parte le inutili divisioni di sigle, poteri personali, beghe e rivalità nate sotto le insegne della vanità, del presenzialismo e cercare di sentire la società, le relazioni, le priorità. Un partito che sarebbe dovuto essere il motore di una stagione diversa, dinamica, propositiva, un partito aperto per una società cambiata. Aperta al dialogo, alle culture, all’esterno, proiettata verso nuove sfide, il “pensiero debole” che diventava forte, maggioritario, guida di un mondo flessibile, mutevole. Sembravano congedarsi le rigidità, le categorie vuote del passato, sembravano finire le appartenenze viste come coccarde, come gagliardetti da mostrare in pubblico per affermarsi, vuoti contenitori. Il confronto, l’ascolto, il mettersi in gioco, in causa, abbandonare le certezze e gli schemi come suprema dimostrazione di coraggio e di forza. Una scommessa che sembrava potersi realizzare, potersi proporre come modello per il futuro, riportare i bisogni, i desideri, le aspettative, le proposte le più ardite e innovatrici al centro della quotidianeità. Un sogno allora, spezzato sul nascere in inverno da beghe, presenzialismi, ripicche, vanità. E così i vecchi schemi hanno piano piano ripreso forza, la società si è chiusa, ha preferito le risposte univoche, ha preferito ritrarsi in se stessa, far vincere la paura, la voglia di false sicurezze, riprendere i miti dell’ordine, dell’egoismo, credere che esistano soluzioni semplici, facili, date semplicemente dalla volontà di una guida priva di dubbi, rifiutare la criticità.
Ora ad un anno di distanza ecco che i primi miti crollano, si sbriciolano in fumo in una settimana, mostrano tutta la loro fragilità, inesistenza. Ancora le risposte sembrano portare verso un’ulteriore chiusura, chiedere un rifugio ancor più miope, insensato. Da una parte così si vogliono nuovamente affermare i controlli, si vuole rassicurare e far credere che un padre buono, compassionevole, attento, ma rigoroso e intransigente, possa risolvere, possa rimettere in riga, possa rimettere il fiume nel suo alveo. Dall’altra lo sconcerto, la delusione non riesce a farsi da parte, non riesce ancora ad affermare il coraggio della criticità, della complessità, della non esistenza di assoluti. Si cercano soluzioni semplici, immediate, facili, definitive, si cerca un inutile e vano consenso, quando potrebbe essere più modestamente e semplicemente il tempo di rinvigorire la cultura di una visione del mondo multicolore, variabile, senza guida, che si porta da sé, che trova nel suo mettersi in discussione, nel non avere “la” soluzione – che non esiste – ma soluzioni puntuali, locali, a misura d’uomo, del quotidiano.
Tra un anno staremo forse ancora a questo punto, o forse tutto si sarà ancora rovesciato, indipendentemente dalle volontà degli uomini forti, dei rassicuratori e degli imbonitori. Qualcuno proverà forse ancora a portare avanti la bandiera del dubbio, la sua voce sarà forse sovrastata ancora dal chiasso, dai proclami, da altre bandiere e ipocrisie, ma che sia almeno sempre un po’ nutrita, che provi indefessamente, a bassa voce, ma costantemente, a cantare fuori dal coro, a non cedere alle sirene dell’univocità.
Un anno fa l’Italia e il mondo erano diversi, come lo saranno tra un anno, a dispetto di ogni tentativo di imbrigliarli.